RAJENDAR
Ho incontrato Rajendar un anno fa qui su queste stesse rive del Gange nelle quali scorre quotidianamente anche la sua storia. Mai avrei creduto di toccare con mano e cuore esistenze che ho visto impersonate da attori sugli schermi dei cinema o lette in libri che mi hanno toccato profondamente e riposano all'asciutto nel mio bianco comodino della mia casa dorata…
Quella di Rajendar è una favola dei nostri giorni della quale forse non leggeremo mai la fine perchè sta scorrendo, anche ora, sotto i miei occhi. Le nostre esistenze si sono intrecciate e i risvolti di questa avventura che fino all'altro ieri si mostrava di rose e fiori, ora hanno spalancato le fauci mostrandomi anche gli inferi più spaventosi dell'animo umano.
Rajendar è nato in un villaggio dell’Uttarkhand da una famiglia poverissima. I vaccini non sono arrivati tra quelle capanne e la polio si è presa le sue gambe torcendogliele all'indietro e deformando piedi e articolazioni. L’ho vista nei suoi occhi al primo istante del nostro incontro quella stella che da qualche lontano dove lo ha scelto.
Cammina come un cane, i piedi se ne stanno rivolti e accartocciati all'indietro, ginocchia e mani muovono i suoi passi che da quello sperduto villaggio lo hanno spinto fin qui, per trovare ciò che non avrebbe mai e poi mai sperato di trovare. Questo mi ha ripetuto più volte quando sediamo insieme nella sua minuscola e soffocante stanza a discutere dei nostri piani e il racconto della sua vita si insinua in ogni mia cellula.
Il fato, gli eventi della suo vissuto, hanno creato in Rajendar un essere superiore.
La natura gli ha martoriato la parte inferiore del corpo per poi pentirsi e riversare straordinaria bellezza e perfezione in ogni centimetro del suo viso e del suo busto.
Il suo passato da cane randagio e tutti quegli atroci ed eroici eventi che lo hanno condotto fino a qui, hanno plasmato nei suoi occhi e nel suo cuore, una forza e una profondità d'animo che rende la sua vicinanza un privilegio.
Volevo scrivere di lui anche l'anno scorso ma non l’ho fatto e il perché ce l’ho davanti agli occhi. C'era qualcosa che la vita aveva in serbo per noi. Dovevamo reincontrarci per scrivere questo capitolo. Sono giorni difficili questi, la spensieratezza e l'armonia che ho incontrato in queste sponde l’anno scorso, quest'anno lascia spazio a questa orribile realtà di cui mi accingo a scrivere.
Oggi sono molto stanco, sono stordito, inorridito da ciò che il destino ha voluto mettermi di fronte. La pratica quotidiana dello yoga mattutino e la meditazione serale sono momenti di serenità che vivo in queste giornate umide e torride. Ma…tutto è connesso…
Lo yoga praticato nella sua essenza apre al destino il sipario della consapevolezza. Ho ritrovato il mio maestro il giorno stesso del mio arrivo. Ho aperto quel cancello di ferro e ho sceso i gradini del suo ashram. Swami Virenandra era lì. Ha spalancato i suoi grandi occhi e con il suo inconfondibile tono baritonale ha esclamato: Oh my god!! You back!!
E io: Oh my god I’m here Swami! Happy to see you again, so happy!!
Con noi nella pratica yoga ci sono Bigud e Sonu.
Bigud è un suo discepolo e studiante, Sonu è un ragazzo indiano di vent'anni che il padre ha mandato in vacanza spirituale da Virenandra. Vi è anche una guru donna che mi viene chiesto di chiamare Mother. Mi piace lei. Poi, Roxi, un cagnetto che mi fa morir dal ridere quando stendo la stuoia per lo yoga e impazzisce quando lo arrotolo insieme. Poi Krishna, la loro mucca che vive nella parte più bassa del ashram dove l'acqua impetuosa di mother ganga lambisce il muretto che li protegge. La stanza di Krishna è più bella della stanza dove sono in affitto!! Swami Virenandra la visita costantemente e la tiene impeccabile. La mucca è sacra e il latte è sostentamento e nettare sacro dell'India.
Bella è il nome che Swami ha dato alla femmina dopo avermi chiesto di darglielo. Onore! Nata l'altro giorno durante la meditazione pranayama serali. Mother ci ha strappati da quel silenzio con le sue urla e siamo corsi a vedere che succedeva. Mucca è di gran buon auspicio, l'anno scorso è nato invece un vitello che come tutti i maschi viene lasciato andare. È sacro ma non produce latte. Ecco perchè le mucche sono ovunque in India, te le ritrovi anche dentro negozi come mi è successo molti anni fa a Nuova Delhi. Stavo guardando delle scarpe e mi sono girato indispettito dopo essere stato scaraventato un metro più avanti. Sulla mia schiena non si era posata nessuna mano se non un grande naso bovino e pure bavoso!
Le mucche quando diventano vecchie e non fanno più latte si aggiungono ai maschi nelle strade di questa terra stordente. Qui alcuni viandanti mi dicono che sono stato molto fortunato a trovare il mio guru, come lo chiamano qui molti yogandi. Mi si dice che la gente viene a flotte per cercare questo. Non era assolutamente nelle mie intenzioni. Ho bussato a quel cancello d’istinto e quando mi hanno aperto ho chiesto a cuore aperto se c'era qualcuno che mi poteva insegnare questa pratica nella sua essenza. Ho detto a quel ragazzo che sentivo il richiamo a quella conoscenza. Avevo provato molte scuole prima di quel giorno e mi sembrava di fare ginnastica o poco più.
Quel cancello alcuni giorni dopo si è chiuso alle mie spalle e Swami mi ha trasmesso la sua conoscenza secondo dopo secondo senza mai staccare la sua attenzione dal mio respiro. Non lo sento come un guru e nemmeno mi interessa questo tipo di ricerca.
Non leggerò i veda e gli scritti dei grandi della storia di questa filosofia. Non ora. Non prima di aver cercato quell’essenza con i miei occhi.
Swami è un grande maestro al quale rivolgo un affetto puro e molto profondo. Non mi parla mai né di religione né di filosofia, a dire il vero non parliamo quasi mai. Lui mi insegna questa tecnica millenaria e straordinaria, forgia quella chiave nelle mie mani e questo è tanto, tantissimo. È tutto.
L’altro giorno finito lo yoga mattutino, mentre il disagio degli eventi che vi racconterò si impadroniva sempre più dei miei pensieri, Swami mi ha detto: Stefano now you drink milk chai in the morning with us and black tea every night. (Ora berrai il the al latte con noi il mattino e il the nero la sera). Dopo di che mi ha consegnato le chiavi del suo ashram.
Nelle ore successive ho camminato nell’aria dalla felicità per poi sbattere violentemente nella cruda e orrida realtà della vita di ANGKIT.
Nel percorso lungo il Gange che faccio quotidianamente per andare dall’ashram di Virenandra a bere il mio centrifugato di frutta dopo il ponte di Ram Jhula, l'anno scorso, mi sono imbattuto in un bambino di nome Angkit. Scene ordinarie qui in India. La polio ne deforma a migliaia e migliaia in questa terra dove i governanti lasciano marcire questi handicappati nel fango senza occuparsi di vaccinare capillarmente.
Angkit se ne sta sempre nello stesso posto. Le gambe accartocciate all'indietro, le braccia contorte e la parola strozzata dalla polio. Pioggia, vento, fango, formiche, mosche, piscio, cani, vacche e umani indifferenti sono tutto ciò che ha da quando viene sbattuto in strada al mattino, con un piattino di ferro per l'elemosina, fino a sera, quando come un pezzo di carne inerte viene prelevato e sbattuto da qualche parte a passare la notte.
Dopo avergli succhiato le rupie che è stato costretto a guadagnare, qualcuno dagli occhi di pietra prelevate quelle rupie le spartisce con i suoi infami simili ubriacandosi giorno e notte e maltrattando chiunque gli sia intorno. Ma io non sapevo…
Ho iniziato a fermarmi con lui tutte le mattine, ho voluto conoscere la sua situazione. Mi si è presentata davanti la madre, la nonna, i due fratellini. Sì, sono poverissimi e ingenuamente in quella situazione. L’anno scorso ho voluto trovare le risposte a tanta sofferenza. Ma non era così. Ogni mattina metto nel suo piatto delle discrete somme e lui mi gracchia sorridendo un namaste. Credo di far bene. Mi sento nel giusto e cammino baldanzoso verso Ram Jhula sentendomi un benefattore. Poro mi…
I giorni passano e ogni mattina penso a cosa potrei fare per rendergli l’esistenza migliore e mi chiedo se dando soldi alla famiglia il problema si possa risolvere e Angkit possa stare fuori da quel fango. Poi, sempre l'anno scorso, l'incontro con Rajendar quel giorno nella stanza della musica del mio insegnante di sitar. Rimango folgorato dall'incontro. Sento di trovarmi di fronte a un angelo. Non riesco a staccare gli occhi dai suoi. Vengo risucchiato e riversato in un mondo di infinita e rara bellezza interiore. Parliamo subito e molto. Rajendar parla inglese molto bene. Qualcuno ha pagato per lui un insegnante e quel qualcuno che un giorno vorrei incontrare ha cambiato la sua vita. Ma la vita si cambia con la forza d'animo nelle scelte quotidiane e una buona stella che si accorga del nostro sforzo. A 14 anni, forse 13, come mi dice Rajendar che non sa esattamente la sua data di nascita, scappa dalla sua famiglia. Si sente un peso. L’adolescenza che lo rende consapevole e ribelle di fronte a quelle gambe che gli fanno guardare il mondo all'insù, lo spinge a questo gesto, a una scelta, appunto, che cambierà il corso della sua esistenza.
Cammina nella boscaglia per chilometri, si arrampica in un autobus e se ne va in quella cittadina della quale sente parlare nel villaggio. Fin da piccolo Rajendar ha manifestato grande forza. Con quelle ginocchia riesce a camminare e le braccia si irrobustiscono. Rajendar si arrampica sugli alberi per guardare quel mondo, come tutti, dall’alto. Si getta nei fiumi e nuota in quell'acqua che rende libero il suo corpo dalla gravità che lo schiaccia sotto tavoli e sedie, sotto sguardi e sofferenza di una famiglia che dalla finestra della povertà ha visto entrare anche un figlio martoriato. Non sa leggere, scrivere, non sa nulla, mi racconta con quella stella negli occhi. Non sa come è fatta una città, cosa sia un treno, cosa sia la vita nel suo perpetuo brulicare. I primi giorni non mangia, non sa come si fa a chiedere a tutta quella gente che lo scruta dall'alto e che a volte inciampa su di lui. Qualcuno gli dice che quelli come lui trovano qualche rupia più facilmente sui treni. Si orienta e arriva alla stazione. Lì trascorre altri giorni seduto in un angolo ad osservare un gruppo di "accartocciati" come lui. Prova a elemosinare ma nessuno lo degna finché qualcuno si fa avanti e gli insegna la tecnica. Un uomo in particolare lo assiste e le loro vite si intrecceranno con un finale tutt'altro che lieto.
Iniziano anni di viaggi in treno tra Uttarakhand, Himachal, Pradesh e Delhi.
Ne ho visti molto come Rajendar nei miei viaggi in questo continente. Salgono alle stazioni, si trascinano con mani, ginocchia o con il busto mozzato a metà tra i vagoni. Ti passano vicino e con la loro unica camicia puliscono la lamiera lurida ai tuoi piedi, poi alzano la mano e quello sguardo senza tempo su di te e chiedono qualcosa.
Rajendar consegna i suoi miseri guadagni a quell'uomo che sente come protettore e fratello. Tieni brother questo è quanto ho guadagnato, so che tu sai come si fa a conservare i risparmi. Un giorno glieli chiederà per tornare a casa, dove da più di un anno non sanno niente. Quell'uomo decide di portare Rajendar qui a Rishikesh e fermarvisi. Rajendar non c'ė mai stato e mi dice che al suo arrivo ha percepito qualcosa di nuovo. Questo posto sacro dell'induismo forse avrà per lui in serbo qualcosa. Dormono assieme in una stanza minuscola. Rajendar è affascinato dal Gange. Quando ė in piena si tuffa dal ponte di Ramjula e nuota tra le impressionanti rapide sotto lo sguardo attonito di indiani e occidentali. Guadagna…più che in qualsiasi altro posto ma la polizia lo tiene d'occhio e gli impedisce di attraversare il ponte e venire in questa sponda, da dove vi scrivo, a elemosinare. Non vogliono che quel mezzo uomo sia tra i piedi. Non li vogliono loro, come hanno fatto con Angkit ieri che me lo hanno sbattuto via.
Questa storia è lunga e le trame sono complesse. Ogni giorno cambiano assetti che credevo di aver recepito, ogni giorno credo di essermi orientato e la mia mente si rilassa, poi dalla sera al mattino tutto cambia e mi ritrovo da capo, frustrato e incredulo.
Capisco ora più che mai come le radici dell'esistenza degli uomini siano radicate in intrecci che corrono e affondano molto lontano dalla nostra piccola razionalità. La nostra stupida e ignorante pretesa di mozzare con la forza qualcuna di quelle radici, pensando di poter plasmare un popolo a nostra somiglianza, fa di noi ciò che siamo ora in questo millennio dalle tinte oscure.
Devo andare indietro di due anni per portare questo racconto ad espletare gli intrecci che mi hanno portato a Rajendar. Dopo la Cina io e Pantxoa due anni fa siamo venuti in India. Volevo che vedesse uno dei posti che amo di più in questa terra. Hampi, in Karnataka, stato del centro sud. Io ci ero stato varie volte in compagnia di amici e altre volte in moto, da solo. Credo di averlo descritto nei miei racconti. Un tardo pomeriggio ho preso la enfield e sono andato a farmi un giro tra quelle risaie che insieme ai giganteschi massi granitici e la fauna esuberante, tingono quel paesaggio di una bellezza mozzafiato.
Avevo sete e il latte di cocco è ciò che più disseta, rinfresca e mineralizza il nostro corpo esposto a temperature e sole cocenti. Il cocco viene venduto agli angoli di quelle strade silenziose dalla popolazione locale. Mi sono fermato sotto un grande mango tree dove una famiglia ogni giorno si guadagna forse il minimo per sopravvivere. Il sole sta calando e il paesaggio si tinge a ogni istante di magia. Chiedo il cocco a una donna e mentre me lo taglia osservo la scena. Un’altra donna è seduta e in braccio ha un bambino che mi osserva. I nostri sguardi si uniscono e sento una vibrazione scorrermi lungo la schiena, poi il mio sguardo si abbassa e vedo nel suo corpo una posa innaturale. Si chiama Manoj. La polio gli ha regalato delle gambe sovrapposte una all'altra e diritte. La testa è ricurva su un lato e le parole non escono da quella bocca ma… dagli occhi. Sua madre mi sorride. Mi siedo con loro e chiedo il loro nome mentre Manoj continua a osservarmi serio. Gli rivolgo un sorriso e tutto il suo essere si illumina. Sorride con tutto. Con gambe piedi mani bocca e cuore. Sento l'impulso di abbracciarlo ma mi trattengo. Con sguardi e mezze parole in hindi e in inglese la madre, Laxmi, mi fa capire che è stata la polio. Non mi chiede niente. Mi sorride. Mi mostra il corpo di Manoj. Le gambe incrociate rinchiudono con forza i suoi genitali. Le piaghe da sudore che vedo nel suo inguine sono raccapriccianti. Quando apro il mio portafoglio per pagare il cocco prendo tutti i soldi che ho con me e glieli do. Un centinaio di euro in India sono molti. Molto più della paga mensile di un lavoratore fortunato. Accendo la moto e me ne torno al Mowgli dove alloggiamo, ma il mio cuore non è leggero. Una frase di Laxmi mi rimane impressa.
Operation.
Dico a Pantxoa di quell'incontro e mi sdraio sull’amaca a osservare il rosso che si addormenta nel verde delle risaie. Penso a quante volte ho visto situazioni del genere nel mondo. Le persone con handicap mi strappano sempre il cuore e manco raramente di aiutarle quando le incrocio nel mio cammino. Ho sempre creduto fermamente che ogni uomo con facoltà di scelta possa portare la propria vita verso la direzione che desidera. La responsabilità di non lasciare al caso la nostra evoluzione personale è ciò a cui credo debba essere dedicata massima attenzione. Pigrizia, inerzia, fatalismo sono causa di malesseri che ogni giorno le persone manifestano ma alle quali ho smesso, o fatico, nel caso di persone vicine, a donare tempo ed energia. I gravi handicap, le malattie e tutte quelle genti che vivono in situazioni dittatoriali, di soprusi e guerra hanno meno questa facoltà e lì il mio cuore batte.
Manoj quella notte ha portato su un altro piano quel sentimento. Cosa ho fatto per lui? Ho donato del denaro che sicuramente porterà un po di sollievo, ma… poi?? Io me ne andrò su un aereo e tornerò nella mia casa dorata mentre la sua vita continuerà e quelle piaghe lo faranno soffrire ogni giorno. Ma situazioni così sono ovunque, bambini in quello stato, se non peggio ce ne sono a migliaia. Non possiamo mica salvarli tutti. Sono troppi. E con questo si chiudono quasi sempre le nostre umane riflessioni e la nostra vita continua. Anche la loro.
Allora cosa dovrei fare?
Qualcosa!
Questa è la risposta che mi ha fatto tremare quella notte. Qualcosa di più.
Il giorno dopo sono tornato da Manoj. Mi sono seduto con la famiglia. Volevo sapere di più. La lingua una barriera. Ho fermato i passanti finché ho trovato un signore che parlava inglese. E così ho saputo molte cose. La famiglia è ovviamente poverissima e quell’operazione è molto importante. Dove? Come? Quella povera gente purtroppo non sa nulla e io…pure. Un sedia a rotelle sarà sicuramente un grande aiuto. Io, Pantxoa, Abby e Joseph ne abbiamo trovata una e l'abbiamo messa a posto e abbellita con colori sgargianti e gadget. Ci siamo molto divertiti durante la "missione". In quei giorni visitavo Manoj quotidianamente e sono entrato nella loro casetta di due stanze più volte. Manoj con quel problema alle gambe non può stare seduto. Passa la maggiorparte del tempo sdraiato con il cielo come unico orizzonte.
Cerco di capire di più sull’operazione e la sentenza finale, che mi lascerà il segno, è stata quella di una grande donna (tedesca) che ha messo in piedi una stupenda cooperativa agricola in quelle risaie e che ci ha regalato la sedia scassata che abbiamo riportato in vita. Mi dice, senti Stefan: Quella famiglia non sarà mai in grado di portare Manoj nelle città di cui non sanno nulla, non saranno mai in grado di interagire con la burocrazia e i medici. O qualcuno si prende la briga di prendere del tempo della sua vita e accompagnarli in quel lungo percorso o rimarrà così per sempre. Dai pure loro dei soldi ma mai tanti e tutti assieme e sicuramente avrai già fatto qualcosa. Non quello però…
Consegnamo la sedia con una grande festa, nel frattempo porto Laxmi in una banca di un villaggio e le apro un conto. Manderò mensilmente il sostentamente per tutta la famiglia. Non posso non dire che quei bancari hanno provato a tenersi i soldi! Per fortuna degli amici in viaggio si sono presi la briga, sotto mia richiesta, di andare in banca a scoprire il misfatto. Rimango esterrefatto di tanta cupidigia e malvagità. Non è che l’inizio. Non sapevo cosa mi sarebbe aspettato quassù a nord con Angkit. Quella volta torno a casa con Manoj nel cuore, che sento più leggero, ma con quella piccola spina dell'operazione incompiuta che ogni tanto si fa sentire.
A Rajendar viene proibito di passare quel ponte e guadagnarsi la vita. Prova più volte ma viene preso a calci. Decide di dare segno di sé alla sua famiglia. Ė orgoglioso di tornare e dimostrare loro che quel mezzo uomo si è guadagnato una piccola fortuna in anni di randagio vagabondaggio (40.000 rupie sono poco più di 500 euro) e gliela sta portando. Ma…quel fratello tutore che da anni tratteneva i suoi risparmi, quel brother a cui Rajendar aveva affidato la sua vita, quei soldi se li era spesi in eroina.
Settimane prima dell’atroce scoperta Rajendar era stato messo in guardia da un Baba. Rajendar mi racconta di essersi arrabbiato tantissimo con quell’uomo dalla lunga barba bianca vestito d’arancio. Come poteva permettersi di insinuare tale sospetto su suo "fratello”? Aveva ragione. L’uomo se n'è andato lasciando Rajendar senza nulla. Nemmeno un tetto. È di nuovo all’agghiaccio. Un giorno mi porta a vedere quell’albero dalle grandi fronde sferzate e piegate dalle poderose piogge monsoniche dove per lungo tempo ha dormito ancora. Lascia Rishikesh all’alba di un giorno d’autunno. Si unisce ad altri quattro Baba. Sono a piedi e percorreranno più volte 400 km per andare ai festival religiosi detti Mela. I Baba lo aiutano e ai festival Rajendar vende acqua acquattato in quella immensa folla. Percorrono dei sentieri di montagna arrampicandosi nell’Himalaya. Un giorno arrivano in un villaggio al di fuori di ogni comunicazione, strade e servizi. Mi racconta che la gente del villaggio rimane a bocca aperta di fronte a quell'angelo senza gambe che arriva fin li. Lo invitano nelle loro capanne, lo sfamano, lo accudiscono e se ne innamorano. Gli chiedono di restare per sempre che sarebbero stati tutti loro la sua famiglia. Le ginocchia di Rajendar non amano il freddo e quella scintilla lo chiama… Trascorre così vari mesi poi ritorna a Rishikesh. Incontra un ragazzo suo coetaneo e fanno amicizia. L’altro si arrabatta la vita con piccoli lavori, Rajendar riesce a ripassare quel ponte e a elemosinare. Dividono un cunicolo per molto tempo. Tutto sembra scorrere. Una sera, quel grande amico che Rajendar amava, cucina del pane (roti) e Dal (specie di ceci) e gli offre il piatto. Rajendar addenta un boccone e sente un gusto insolito ed amaro. Lo rifiuta. L’amico si scusa e gli porge un the. Rajendar sente ancora quel gusto ma per non offendere l'amico beve tutto. Si sveglia verso le tre del mattino e nel giaciglio il suo amico non c’ė. Crede che sia uscito a pisciare. Si riaddormenta e risveglia all'alba. Ancora non c’è. D'istinto Rajendar fa scorrere la sua mano sotto i pantaloni dove tiene un rotolo di rupie che sono i guadagni di lunghi mesi. Sparito! Rubato. Rajendar chiama e lo cerca per giorni piangendo di disperazione e tradimento. Mi dirà che lo ha rivisto due anni dopo ed era in condizioni pessime. Magro, ammalato, sfinito… Rajendar lo guarda e tira dritto. La sua punizione non serve. Arriva da sola per altre vie…
Quando mi racconta tutto questo i suoi occhi diventano scuri scuri…siamo di fronte uno all'altro ma io non credo mi stia vedendo…
Un giorno dopo essersi tuffato dal ponte di Ram Jhula una coppia di occidentali si ferma da lui. Hanno una quarantina d’anni. Cercano di comunicare con lui. Rajendar non spiaccica una parola d'inglese ma ha quell’innata e magica capacità di capire, senza vedere, senza ascoltare. I due americani si innamorano di lui. Vogliono fare qualcosa per quell’angelo del Gange. Pagano un insegnante di inglese che ho conosciuto l'altro ieri.
Rajendar impara velocissimo e molto bene. Gli americani mandano a una indiana dei soldi mensilmente affinchè glieli dia. Rajendar non ha conti bancari. Non ha niente. Quella donna se ne terrà una parte e si giustificherà con gli americani ma Rajendar ha chiesto loro di non volerne sapere. Ha avuto abbastanza. Di tutto…
Vede un concerto e rimane affascinato dalle tabla, si avvicina al musicista (Mukesh) e gli chiede di poterle toccare. È amor… Mukesh lo invita nella sua casa scuola. Gli americani pagano anche Mukesh che è diventato anche il mio insegnante di musica. Mukesh insegna a Rajendar a suonare le Tabla (dei bonghi indiani alla base della ritmica hindu). La musica gli entra nel sangue. Impara veloce e dona se stesso allo strumento.
Con i soldi degli americani si sfama, si trova una stanzetta in uno di quei fatiscenti palazzi che purtroppo sorgono ovunque in India. Si compera una di quelle biciclette a tre ruote con i pedali sul manubrio. Suona, impara, legge, scrive e inizia a fare concerti nelle scuole di yoga di Rishikesh insieme a Mukesh. Porta i turisti da un ponte all'altro del Gange e si guadagna il pane senza più elemosinare. Mai più mi dice. Aiuta molte persone che sono in difficoltà con ciò che può e una cambierà ancora una volta la sua vita…
Mukesh lo manda in un yoga ashram da solo a fare un concerto. Alla fine gli yogandi occidentali si radunano intorno a lui e gli chiedono cosa possono regalargli per ringraziarlo di aver sentito quelle mani battere sui loro cuori. Uno scooter risponde Rajendar. Questo è ciò che più desidero da anni. Gli viene regalato. Uno a tre ruote. Rajendar vuole lavorare ed ora con quello scooter può portare chiunque ovunque. In due anni ha percorso più di centomila chilometri. In molti lo chiamano. Porta i viaggiatori ovunque, anche nelle cascate di queste montagne. Parcheggia il suo scooter e cammina con le sue ginocchia nei sentieri e si tuffa con loro nelle pozze d’acqua.
Un giorno reincontra il suo primo tutore che gli ha rubato tutto. È quasi in fin di vita per un infezione allo stomaco. Non ha soldi. Rajendar lo porta all'ospedale lo fa curare con i suoi risparmi. Lui guarisce e se ne va senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi. Rajendar è un essere superiore e avrà molto di più poco tempo dopo… Lui è la chiave di volta. Lui è la persona che dovevo incontrare per riuscire ad aiutare Manoj e Angkit. Glielo chiedo per sicurezza ma conosco già la risposta. È ciò che più desidero mi dice. Non mi sembra vero di avere avuto il privilegio di conoscerlo e che il nostro incontro possa fare tanto. Gli dico subito di portarmi da Angkit. Parla con la “famiglia” mentre lo osserva con uno sguardo che non dimenticherò facilmente. Vorrei comprargli una sedia a rotelle. Lui ovviamente sa dove. Andiamo e mentre guida mi dice che Angkit ha due fratelli, la madre, la nonna e il nonno. Il padre non si sa…sono lì da due anni. Io gli chiedo ma come fanno a lasciarlo in quelle condizioni nel fango? Rajendar apre le mani…
Torniamo con la sedia a rotelle. Gliela diamo e io guido Angkit dopo il ponte di Ramjula. Ė in estasi, urliamo Ramjula Ramjula. In due anni è la prima volta che lo oltrepassa. Il ponte è a soli duecento metri da quel metro quadro di terra sporca e lurida dove trascorre la sua esistenza. Le mattine dopo passo, metto sempre dei soldi in quella ciotola che usa anche per mangiare e bere, mi fermo un po con lui. La sedia non so dove sia. È ora di tornare in Italia…
Un anno ė passato e qui ho voluto tornare ad affinare con Swami Virenandra la magnificenza dello yoga. Ma…in questi giorni ho visto tenebre e luce nella loro massima forza. Yin e yang hanno urlato la loro presenza facendomi sprofondare nell’orrore e a poca distanza di tempo da ogni manifestazione, a distanza di ore, irradiandomi di luce più volte nel giorno. Essermi affacciato con più determinazione nella vita di Angkit ha smosso forze oscure, ho visto demoni e angeli posarsi sulle mie spalle. Ora sto meglio, ho capito, si, ho capito…purtroppo. Scrivo di tutto questo. Ora.
Il primo giorno alle nove esco da quel cancello di ferro dopo la mia prima bellissima “lezione” con Swami Virenadra. Rishikesh è la stessa. In quella stradina sul Gange incontro quasi tutte le stesse facce. Gli stessi sadu, quelli dotti e veri di intento che seguono un ritmo quotidiano scandito da azioni puntuali. Quello che alle nove in punto attinge da una fontana, quello che legge un grande libro seduto su un piccolo tavolino, quello che suona l'armonio, quello che va a prendere il latte con quella pentola metallica! L'altro che recita un mantra. Sotto un grande albero il solito ometto mi chiama per bere un chai che puntualmente devo rifiutare perché non mi piace. Cammino verso il ponte di Ram Jhula per bere un succo nel mio solito sgabuzzino pulito e simpatico.
ANGKIT è li. Stesso posto. Stesso metro quadro di fango.
Sono passati trecentosessantacinque giorni in cui ho sorvolato mezzo pianeta, in cui ho suonato nuova musica, creato opere d'arte, lavorato, gozzovigliato, ubriacato, fumato, praticato yoga, studiato, incontrato, scambiato, ospitato, corso su e giù dalle mie montagne in bici, amato e sofferto per la malattia di mio padre. Lui era lì. Mi sono emozionato nel vedere che mi ha riconosciuto all'istante. Saluto la “madre” la “nonna” e i “fratellini”. Faccio la mia offerta nella sua ciotola, cerco di scambiare qualche parola e continuo verso il mio succo di melograno come trecentosessantacinque giorni fa. Quasi. Ma ho qualcosa in mente…
Ritrovo Mukesh e inizio la lezione alle 10:30. Il mio intento venendo qui era anche quello di dare una mano al progetto che mi aveva esposto l’anno scorso, costruire una stanza per insegnare musica ai bambini troppo poveri, alcuni senza genitori presi dai parenti già indaffarati. Glielo dico, e inizio ad investigare sul da farsi, ma sento avvicinarsi uno scooter. Rajendar ha saputo che ero arrivato ed è venuto subito. Quando è entrato a carponi e si è alzato per salutarmi era radioso. Discorriamo di tutto e dopo un po’ vado al dunque. Avevo pensato moltissimo a lui nei trecentosessantacinque passati. Lui era la chiave di volta. Glielo chiesi. Rajendar. Tu sai come possiamo fare per far operare Manoj e Angkit? Lui mi dice che c'è un ospedale in Rajastan dove operano senza spese la polio dei bambini. Guardiamo in internet e chiamiamo subito. Gli dicono di presentarsi per un check up un qualsiasi giorno della settimana tranne domenica. Dal check up gli diranno se è possibile, cosa migliorerà e quando portarli. Perfetto! Ma siamo sicuri di non andare per niente e che poi non ci dicano che serviva fissare un appuntamento?? Mi stupisco piacevolmente quando Rajendar mi dice di aver registrato la conversazione con l’addetta. Beh… sveio e santo!!! Sono in buone mani sia madri che tosatei!!!
Non ho bisogno che mi venga spiegato che in caso di operazione non si parla di giorni ma di mesi. Qualcuno deve occuparsi di assistere le madri in tutto il periodo. E qui arriva la domanda cruciale: Rajendar se io sostengo la tua vita offrendoti questo tipo di lavoro, lo faresti? Non ho neanche finito la frase che un sorriso e un si mi è arrivato dritto! Yeppp
Vamos!!! Gli do il numero della madre di Manoj e la chiamiamo. Laxmi mi chiama Baba Stefano. È felicissima, ci chiede come e quando. È pronta. Non vede l'ora. Ringrazia.
Non mi sembra vero. Andiamo subito da Angkit a vedere che dice la famiglia!
E qui inizia il bello, per non dire l’orrido…
È inverno. Qui ai piedi dell'Himalaya le temperature rasentano lo zero di notte ma di giorno sono primaverili. Da qui basta fare un centinaio di chilometri e le strade sono chiuse per neve e ghiaccio già da fine ottobre. Himalaya, si sale sul tetto del mondo.
Rajendar è all'ospedale con una infezione. L’ultimo giorno di degenza vede una madre con sua figlia aggirarsi negli ambulatori. La ragazza è bella. Capelli neri lunghissimi, viso piccolo e giovanissimo, un vestito rosso con bordature dorate. Lo dimettono e gli dicono di tornare dopo tre giorni per un test di conferma. La sanità si paga in India e a parte casi isolati come l'ospedale del Rajastan, il governo indiano guarisce il suo popolo solo a suon di rupie che tutti si ingoiano fino a scoppiare come le case farmaceutiche. Chi ha vive, chi no, muore. Gli ambulatori indiani sono spesso a porte aperte. Rajendar ha con sé 4000 rupie per pagare il suo test. È piacevolmente stupito di essere in attesa con la stessa donna e la figlia col sari rosso e i lunghi fili neri, lucidi e profumati di cocco. Ascolta la conversazione del dottore rivolta alla madre. La madre si dispera. La figlia ha un problema allo stomaco e deve assolutamente essere operata. Il conto che presenta è insostenibile. Il dottore aspetta con aria insofferente che la donna raccolga le sue lacrime e se ne vada sperando che il prossimo paziente porti una boccata di ossigeno cartaceo… Rajendar non esita, si alza e va dalla donna. Gli da tutto ciò che ha. Quelle 4000 rupie possono bastare per salvarla.
Nella loro piccola stanza dal caldo soffocante, Rajendar mi guarda con quegli occhi che vedono ovunque e mi dice con un tono di infinita umiltà che mai e poi mai avrebbe pensato che nella sua vita una donna potesse amare un mezzo uomo fino a sposarlo.
Dillo ha 17 anni. Ė bellissima. È innamorata. È felice. Non potrebbe essere altrimenti.
Mi serve un buonissimo chapati con masala. Non mi stanco di guardarli. Il mezzo uomo e la principessa dai capelli neri. Sto sognando. È troppo bella questa favola. Io non ho mai incontrato niente di simile prima d’ora. L’ho forse letto in qualche fiaba da bambino che non è dentro il mio comodino bianco. Sono lì di fronte a me in questo tempo. Ora, in questo torrido e monsonico agosto del 2016.
Ma anche il loro matrimonio metterà a dura prova Rajendar e questo capitolo sembra non finire mai sotto queste dita che scrivono nella terrazza del Dream Café che si affaccia sul Gange. La madre di Dillo lo ringrazia e lo chiama varie volte ma un giorno a chiamare è Dillo. Si incontrano. È amor. Dopo alcuni mesi di frequentazioni segrete Dillo chiede a Rajendar di portarla via con lui. Rajendar è hindu, lei musulmana. Lui è un mezzo uomo, lei una bellissima ragazza. I genitori di lei non avrebbero mai acconsentito. La porta a Rishikesh e si nascondono per otto mesi. La polizia li cerca. Rajendar ha degli informatori (niente di più facile, basta pagare) capisce che ci sono quasi. Lui e Dillo si sposano con una specie di rito civile che non ha propriamente validità ma suggella un’intenzione. Rajendar si costituisce. Ha luogo il processo dove viene chiesto a Dillo per tre volte se è quella la sua volontà. Al terzo Sì, il giudice pagato da Rajendar da loro libertà di convivenza. Aman è nato il 9 maggio. Rajendar mi racconta di aver toccato per prime le sue minuscole gambe. Erano integre e scalciavano alla vita. Ha pianto di gioia per giorni.
Ora sono lì, tutti e tre davanti a me, nella loro stanza-casa senza finestre. Mentre Dillo prepara il ciapati nella minuscola cucina del pian terreno in comune con altre sei famiglie, Rajendar mi dice: prima vivevo pochissimo a casa, ero sempre fuori. Ora sono qui e non avrei mai pensato di avere tutto questo, indicando con gli occhi la stanzetta. Alzo lo sguardo e osservo. In quella stanzetta vi è un letto, un tavolino, un sari rosso che copre le piccolissime nicchie di un armadio a muro e una tv scassata. Niente più.
Sono le 7:30 am.
Oggi salutiamo a malincuore Virenandra e levo le ancore. Ho imparato. Ho imparato molto di più di ciò che mi aspettavo…purtroppo.
10 am. Ho chiesto a Swami se posso tornare in qualsiasi momento da lui. Non credo che tornerò più in agosto. Piove troppo, mi sembra di respirare sott'acqua dall’umidità. Non posso camminare e/o esplorare queste montagne perché è fango ovunque. La sporcizia dell'India con questo clima mi è diventata pesante, forse, anzi…soprattutto quella umana nella quale ho affondato i piedi e il cuore in queste settimane.
Swami mi ha abbracciato a fine lezione. I sadhu non lo fanno mai. Non si fanno toccare. Mi ha detto di entrare da quel cancello quando voglio, in qualsiasi stagione. Che ben! Lui sarà li. Non esce mai. Mi fa: Stefano, i will be with you. Be always happy. E quelli…sono momenti di luce che spazzano ogni ombra.
Io non ho cercato nessun guru. Swami ai miei occhi non ha nome ed età, non ha timbri, carte e listini orari. Swami è un grande maestro che porterò con me per sempre. Sapere che quando sentirò la necessità posso aprire quella porta mi fa un gran bene.
Nella stanzetta di musica, prima di andare da Angkit, discutiamo della situazione anche con Mukesh al quale Rajendar deve molto. Mukesh alza gli occhi e mi dice: come può una madre lasciare un figlio in quelle condizioni? Perchè? La povertà non può giustificare tutto questo. Discutiamo, andiamo oltre. Io rifletto sul fatto inequivocabile che la famiglia di Manoj, pur essendo nelle stesse condizioni di quella di Angkit, lo accudisce nel miglior modo a loro possibile. Pur non avendo la conoscenza per poter organizzare quell’operazione che gli renderebbe la vita senz'altro migliore, Manoj è circondato di attenzioni. Zii, zie e nonni sono attorno a lui, Ganesha, suo cugino non lo abbandona un attimo. Vivono in simbiosi quei due. Ad Angkit invece viene buttato un secchio d'acqua sopra un’insaponata distratta. Nessuno dialoga con lui, nemmeno i suoi due fratelli. Se ne sta lì e basta. Rispondo: È vero Mukesh. È così. È proprio così. Mukesh tace e quando mi rivolge di nuovo la parola mi dice, io non credo che quella sia la sua famiglia. Una madre non farebbe mai così. Poi mi dice, Stefano, sai cosa avrebbe veramente valore per lui?
Cosa? Mukesh: Che tu ti prendessi del tempo, che ti sieda con lui e cerchi un dialogo. Ha ragione.
Con Rajendar prendiamo lo scooter e andiamo da lui. A chiedere alla “famiglia” dell’operazione. La madre, Uma, ascolta e ciò che vedo inizia ad insinuare in me l'affermazione di Mukesh. A quella non gliene frega un cazzo. Rajendar chiama il “nonno”che se ne sta sdraiato sotto un albero. Se va Rajastan non può certo portare Angkit. Lui è un mezzo uomo. Qualcuno oltre la “nonna”, che sembra l'unica a emettere qualche “timido” assenso, dovrà fare il viaggio e portarlo su e giù dai treni. Quando si avvicina e lo guardo in faccia sento un moto di repulsione. Ha gli occhi di pietra. Non mi piace per niente. Emette una specie di si può fare senza nemmeno salutare. Se ne torna al suo albero. La situazione cambia completamente. C’è qualcosa che non va in tutto questo. I giorni seguenti sono un susseguirsi di prove, di bugie, smentite, dubbi e dubbi. Gli inferi si sono mossi su di me. Vengo avvicinato da persone maligne ogni giorno. Tutti mi sussurrano cose che mi destabilizzano, mi gettano dallo sconforto all’incredulità, alla speranza di smentita di ogni cosa.
In quei giorni mi siedo con Angkit. Non do più denaro. Ogni mattina gli prendo un succo fresco e gli prendo del cibo per tutto il giorno. Ogni volta che glielo porto lui cerca sempre Uma. Vuole che dia tutto a lei. A quella donna assente. La “nonna” è l'unica che fa qualcosa per lui ma Angkit cerca solo Uma. Non vuole dare niente a lei. Non capisco piu un cazzo. Rajendar mi dice che secondo lui loro sono famiglia vera. I fatti di quelle ore che passo con Angkit mostrano il contrario. Angkit si sente responsabile di racimolare rupie. Anche se gli porgo buon cibo di ogni genere, magliette che sostituiscono il sudiciume che gli lasciano addosso quelle genti infami, lui mi chiede puntualmente money. Volge sempre lo sguardo con la sua testa contorta verso quell'albero. Quegli occhi di pietra attendono solo guadagno. Misero e infame guadagno.
Come posso portare Angkit in Rajasthan e fargli fare un'operazione che richiede riabilitazione e amore di qualcuno che lo voglia? La situazione si complica sempre più. Non so piu che fare. Durante lo yoga e le meditazioni non riesco più a concentrarmi. Un martello mi batte in testa in ogni momento. Il pensiero è fisso. Cosa succede? Cos'è tutto questo? Una mattina dopo averlo sfamato gli prendo le mani e inizio a chiedergli di aprirle e chiuderle sulle mie dita. Angkit esegue e sorride e urla come non ho mai visto prima. Continuo. Gli alzo le braccia, su e giù, su e giù. Gliele faccio aprire e alzare. Va in delirio. Open, close, open, close. Questo è ciò che vuole. Nessuno mai gli ha fatto questo. Nessuno mai gli ha insegnato ad usare quello che resta del suo corpo.
Quando mi vede ora urla di gioia e alza le braccia per donarmele. Gli insegno ad aprire i gomiti e a sostenere il busto eretto appoggiando i palmi all'indietro, come nella posizione yoga di relax tra un esercizio e l’altro. Non può credere di poter stare così. È in estasi. Impara. Può impararare, porca puttana merda cane ladro. Sono felice ma mi stò scurendo, ogni momento di più. A quegli infami fa solo soldi il suo rattrappimento inesorabile.
Ma come può esistere tanta ferocia? Sto perdendo il controllo, la rabbia mi sale dalle viscere, lacrime rabbiose scendono e si mescolano a questa pioggia incessante. L’impotenza mi spacca le ossa. Devo agire. Discuto con Rajendar per ore e ore. Una mattina andiamo dalla quella gente e chiediamo se hanno i documenti che provano la maternità di Uma. Tentennano, prima dicono che si sono deperiti, poi un altro giorno dicono di averli nel loro villaggio di origine e che forse vi torneranno… Quando guardo quelle donne non vedo la pietra che ha l'uomo dell’albero. Sembrano sincere. I miei dubbi galleggiano in un mare di smarrimento. Sono sempre più stanco. L’unico modo per essere sicuro della maternità è la prova del DNA. Mi sembra un piano efficace. Se non ci danno i documenti possiamo dire che per portarlo in Rajasthan dobbiamo avere i documenti e l'unica maniera è quella. Ma non era nemmeno così.
Angkit piscia e defeca sul posto e siede sui suoi escrementi. Il Gange per fortuna è a due passi e quella nonna…prende una brocca d'acqua e gliela getta addosso. Un mattino la osservo. Lo insapona e poi gli rovescia addosso la brocca. Le gambe di Angkit sono chiuse nell’inguine. Non come quelle di Manoj che sono addirittura sovrapposte ma la pulizia di quella parte non è accessibile se non facendolo con la giusta intenzione. Quel gesto mi fa capire molto. La nonna…chiede ad Angkit di lavarsi la sotto. Lui prova ma non pulisce un bel niente. Non ce la fa. E così è rimasto. A un figlio lo fai tu, punto e basta. Non ho bisogno d’altro. Vado dalla polizia. È ora. Chiamo Rajendar e gli dico di venire con me. La polizia ci promette che farà qualcosa. Dico loro che questo è un crimine contro l'umanità e che sono lì per denunciarlo. Ci abboniscono di buone parole e ce ne andiamo.
Nel frattempo l'attenzione di vicini e passanti abitudinari si sposta su Angkit. Mentre la mattine gli faccio fare gli esercizi sempre più gente si interessa, soldi cadono nella sua ciotola insieme a cibo e a parole al vento. Io non so come fare per dire di non darglieli quei soldi. Angkit li vuole a tutti i costi. Li deve avere. Che posso fare? Niente, devo lasciar fare. Nel frattempo vado in una scuola gestita da un’americana che mi consigliano. Non possono fare niente. Servono i documenti che confermino che è minorenne sennò sono guai dal signor governo…in ogni caso, mi dicono, se non è autosufficiente non si può fare. Quegli infami asseriscono che ha 18 anni. Non è vero, ne avrà al massimo 12. Mi rendo conto che la gente parla, sento il vociare, si son mosse delle cose attorno ad Angkit. Io e Rajendar andiamo anche in un altro istituto ma niente. Solo malati di mente. Torniamo a casa. Il giorno dopo rimango impietrito. Angkit non c'è più. Nemmeno nonne, mamme fratelli e l'uomo di pietra. Cazzo, han sentito odor di bruciato e son fuggiti. Di male in peggio. Chiamo Rajendar. Dobbiamo trovarlo ora, prima che sia troppo tardi. Iniziamo le ricerche. Il figlio di Mukesh mi dice di sapere dove hanno la stanza. Andiamo. Il padrone dello stabile fatiscente dove sguazzano maiali nella fogna sottostante, ci conferma dalla foto, che si, sono loro e vivono li. Non Agkit però. Lui li non lo portano mai. Chiaro. Per far che? Far anche la fatica di usare la sedia a rotelle che gli ho preso l'anno prima e fare quel chilometro? Molto più facile farlo dormire sotto l’albero a due passi da quel metro quadro di fango che è sempre stata tutta la sua vita. Mi vien voglia di urlare, di spingere tutti in mezzo ai maiali in quella fogna e sperare che il Gange spazzi via tutta l'India. Lo troviamo il pomeriggio e mi arriva un ulteriore mazzata. Ora è di là del ponte in un posto peggiore perché li di soldi non ne prenderà molti. Perchè? È stata la polizia! Non posso crederci. Vorrei sprofondare e sparire da quel posto maledetto. Quei bastardi hanno pensato bene di risolvere il problema andando li, prendere tutti a calci compreso Angkit, come mi diranno i vicini e sbatterli di là del ponte di Ram Jhula dove non è più di loro competenza. Non c'è scampo. Non vi è soluzione. Questa India non è la mia terra. Anche le atrocità più efferate vengono digerite dagli uomini, ogni giorno in ogni epoca che ci ha visti su questa terra. In quel momento non vi è più nessuna terra che io possa sentire sotto i piedi.
Rajendar mi aiuta. Mi spiega che devo accettare al momento. Devo lasciare che le acque si calmino. Devo alzare le mie barriere e non lasciarmi trascinare dallo sconforto. Pensiamo a Manoj. Ha ragione. Anche Daren, il mio vicino di stanza me lo dice. Me ne torno in quella mia camera, apro quel cartoccio che Itai di Tel Aviv mi ha lasciato al mio arrivo e finalmente fumo quel denso e buonissimo charas che viene da Manali. Mi metto le cuffie e mi abbandono alla musica fino a notte.
La mattina mi alzo, vado da Virenandra e mi sento più tranquillo. So che perlomeno Manoj il 15 settembre se ne andrà con Rajendar in Rajasthan. Devo pensarla in questo modo altrimenti soffoco.
Ma non mollo.
Mi ricordo di un consiglio datomi da un uomo nel mio chioschetto dei succhi settimane prima. Vai dalla polizia, prova, ma ricorda che situazioni di schiavismo così ce ne sono a migliaia e sappi che la maggior parte delle volte la polizia è coinvolta succhiando la sua parte di rupie a quegli esseri senza speranza. Solo l'evidenza dei fatti può scatenare qualcosa per Angkit. Trova un giornalista e riferisci di quella situazione in specifico. Lo trovo. Rajendar ne conosce uno che ha scritto su di lui. Andiamo con lo scooter sotto una pioggia torrenziale e riferiamo, e...speriamo.
So che ad Angkit piace la musica. Chiedo a Rajendar di accompagnarmi al mercato e gli compero uno speaker, andiamo in un altro negozio e facciamo fare il download di molta musica indiana. Glielo porto nel suo nuovo metro quadro al di là del ponte dove passerà altra esistenza. Urla di gioia. Mi da le mani, vuole giocare. Io non me la sento. Lo saluto con un mare nero negli occhi e me ne vado. Attraverso il ponte ed entro dalla polizia. Mi siedo. Chiedo qualcuno che parli inglese e lo deve parlare bene. Sono freddo come il ghiaccio. La polizia ammette di sapere che non sono la sua famiglia. Ma senza prove non si fa niente. Dico loro che un crimine, per me e per tutti, rimane un crimine, che sia al di qua o di là di un ponte, sopra o sotto i mari, dentro o fuori ogni porta che si chiuda sulla vita di ogni essere. Dico loro che Rajendar si occuperà di trovare un istituto che possa accogliere Angkit, e se auguratamente succederà, e se loro non toglieranno da quell'uomo di pietra quell'essere umano e lo consegneranno su una delle loro belle macchine a quell'istituto, sentiranno il fiato di tutta l'umanità finché la morte se li prenda. Non ho ascoltato una parola di ciò che mi hanno detto in seguito. Mi sono alzato e me ne sono andato senza salutare.
Rajendar l’ho salutato ieri. Andava al suo villaggio a prendere Dillo che aveva portato pensando di andare in Rajasthan questa settimana. Riceverà dall’Italia mensilmente ciò che gli basterà per poter pensare senza affanno alla sua vita e quella di Dillo e poter rivolgere quella scintilla a qualcuno che ora ha più bisogno di lui. La data fissata con Laxmi è il 15 settembre, quando i monsoni avranno placato l’ira di questi cieli plumbei su queste montagne che sopportano tutto questo.
Ora è tempo di andare. Mi manca tantissimo quel basco selvaggio, il vino rosso, la scogliera di Reiz Kibel, i concerti, le cozze francesi, il gin tonic spagnolo, le mie sedute di yoga solitario nella spiaggetta di Zokoa e le notti a zonzo inebriato di leggerezza.
India. Agosto 2016.